Senza pietà: l’emblema del disorientamento della donna nel dopoguerra

Senza pietà diretto dal regista Alberto Lattuada nel 1948, racconta la sconvolgente storia d’amore tra una donna bianca e un capitano afroamericano.

Carla Del Poggio e il soldato afroamericano in una scena tratta dal film

Le vicende sono ambientate nella pineta di Livorno. Carla Del Poggio, è Angela, la protagonista ( nella vita moglie di Lattuada) che giunge a Tombolo in cerca del fratello, con la speranza al tempo stesso di costruirsi una nuova vita. La giovane donna, ben presto dovrà scontrarsi con la dura realtà del luogo; un luogo in cui è di stanza un battaglione di soldati afroamericani, un luogo in cui vigono traffici illeciti, il contrabbando e la prostituzione. Angela, è l’emblema del disorientamento della donna nel dopoguerra. Una donna innocente, ingenua, ma al tempo stesso assume dei tratti selvatici. E’ una vagabonda, è sporca, sbadiglia a bocca aperta, ma ha una dolcezza nascosta che appare attrarre il suo amore verso gli animali. Memorabile è la scena d’inizio in cui Angela viaggia in treno verso Livorno e gli appare un cagnolino in corsa e lei improvvisamente spalanca le braccia come se attraverso quel gesto volesse accogliere quell’animale bisognoso di affetto.

Ancora Carla Del Poggio nella scena del treno verso Livorno

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fonte: Il Neorealismo cinematografico italiano a cura di Lino Miccichè (Saggi Marsilio)

Anni difficili: l’inizio della collaborazione tra il regista Luigi Zampa e lo sceneggiatore Vitaliano Brancati

Anni difficili: l’inizio della collaborazione tra il regista Luigi Zampa e lo sceneggiatore Vitaliano Brancati è il primo film della trilogia ideata dallo sceneggiatore. Gli altri film sono Anni facili (1953) e L’arte di arrangiarsi (1954).

Locandina del film

Anni difficili segna l’inizio della collaborazione tra il regista Luigi Zampa e lo sceneggiatore Vitaliano Brancati. La coppia è unita nella denuncia dei difetti del carattere italiano tra cui la falsità e l’esagerata morale che saranno gli aspetti distintivi di molti connazionali durante il secondo dopoguerra.

Ambientato nella città di Modica in provincia di Ragusa, durante gli anni ’30 dello scorso secolo, è protagonista Aldo Piscitello. L’uomo è un semplice e modesto impiegato comunale, lontano da ogni interesse verso la politica, il quale l’unica ambizione che nutre è, quella di vivere una vita serena e normale all’interno del suo nucleo familiare.

Ma l’avvento del Fascismo prima e lo scoppio della guerra dopo, costringono Piscitello a prendere una decisione di vita che lo porterà suo malgrado ad iscriversi al Partito Nazionale Fascista, pena il licenziamento.

Da questo momento in poi per il povero impiegato inizia un periodo caratterizzato da amarezze e delusioni che terminerà con la morte del figlio reduce e di ritorno verso casa e con l’epurazione dal proprio posto di lavoro da colui il quale anni addietro, lo aveva costretto ad aderire al Fascismo.

Le affinità del film Anni difficili al Neorealismo, vanno ricercate nelle condizioni di vita dell’Italia nell’immediato secondo dopoguerra e nelle conseguenze lasciate dal Fascismo. Forte della spinta impressa da Rossellini, De Sica e Visconti, la coppia Zampa/Brancati tende a proseguire nell’approfondimento dell’analisi sulla società italiana di quegli anni. Per il resto il film rientra perfettamente nel modo di fare cinema classico.

Scena tratta dal film

Anni difficili: l’inizio della collaborazione tra il regista Luigi Zampa e lo sceneggiatore Vitaliano Brancati è il primo film italiano in cui si fa riferimento all’intervento delle truppe fasciste nella guerra civile spagnola a fianco delle forze ribelli guidate da Francesco Franco. La tecnica di narrazione che vuole alternare immagini di archivio a quelle girate dalla troupe, rappresenta una scelta originale. Il film venne adattato negli Stati Uniti sotto la firma dello sceneggiatore e scrittore Arthur Miller.

Una delle novità riscontrate in Anni difficili sono le riprese esterne effettuate nei luoghi originali in cui si svolge la storia.

L’uscita del film nelle sale italiane nel 1948, se è accolta da ampi consensi sia da parte della critica che dal pubblico, dall’altra si trova dinnanzi a serie difficoltà da parte delle istituzioni della nuova politica italiana, che vede come una minaccia il film che attraverso il suo racconto in qualche modo si accosta molto con alcuni esponenti politici di quel tempo.

Anni difficili: l’inizio della collaborazione tra il regista Luigi Zampa e lo sceneggiatore Vitaliano Brancati è considerato di notevole valore artistico non soltanto per il modo in cui viene trattato il tema del “trasformismo politico” ma anche per le eccellenti interpretazioni di un cast di primordine: Umberto Spadaro, Massimo Girotti, (protagonista di Ossessione, altro film neorealista di successo) Ave Ninchi, Emilio Biliotti, Milly Vitale.

Fonte:

Dizionario del cinema italiano – IL NEOREALISMO di Stelvio Catena    Guerra Edizioni (2017)

 

Achtung! Banditi!: la Resistenza partigiana a Genova

Achtung! Banditi!: la Resistenza partigiana a Genova, racconta le drammatiche vicende vissute sul finire del secondo conflitto mondiale.

Achtung! Banditi!: la Resistenza partigiana a Genova, segna il debutto alla regia di Carlo Lizzani, il quale era già stato sceneggiatore e collaboratore di registi quali, Giuseppe De Santis, Roberto Rossellini e Alberto Lattuada.

Achtung! Banditi!: la Resistenza partigiana a Genova
Locandina del film

Con Achtung! Banditi! del 1951, si chiude quel  filone resistenziale che era iniziato con Roma città aperta nel 1945.

Il soggetto del film è tratto da un episodio di vita reale verificatosi a Genova, alla vigilia della liberazione della città da parte degli alleati. Le location degli esterni sono girate in particolar modo in una fabbrica genovese che diventa non solo luogo di lotta politica ma anche di lotta militare.

L’aspetto innovativo di Achtung! Banditi! va ricercato nella produzione, in quanto gli stessi cittadini genovesi, aderirono alla proposta di fare un film incentrato sulla lotta contro l’occupazione nazifascista attraverso la costituzione di una cooperativa, la “Spettatori Produttori”, sottoscrivendo azioni da £ 500. Lizzani, prende come punto di riferimento il cinema di Alessandro Blasetti, specificatamente il film 1860, in un’ottica di storicizzazione, e promuovendo allo stesso tempo un cinema basato su temi di riflessione e idealismo. Il film 1860 è l’opera che nel dopoguerra viene considerata come un manifesto dell’ideologia marxista, in cui forte è il legame tra Risorgimento e Resistenza.

In Achtung! Banditi!: la Resistenza partigiana a Genova, Carlo Lizzani rivolge lo sguardo alla solidarietà degli italiani contro l’occupazione nazista. Un popolo intero, senza distinzioni di classi, impegnato nella guerriglia sulle montagne, si ritrova unito a lottare contro l’invasore.

In questo contesto, la Resistenza si identifica  come un movimento di liberazione nazionale, dove ognuno contribuisce a dare sostegno.            Inoltre bisogna sottolineare che Achtung! Banditi!, rappresenta uno dei primi esempi di cinema militante italiano.

Un ulteriore aspetto di novità è l’ampia partecipazione di autori e di consulenti alla stesura della sceneggiatura, tra i quali molti di loro hanno partecipato al conflitto nelle fila delle formazioni partigiane.

Il film si avvale di attori professionisti tra i quali emerge una giovane Gina Lollobrigida, Andrea Checchi e Vittorio Duse.

Scena del film

Tra gli operai ritroviamo il volto familiare di Lamberto Maggiorani, indimenticabile protagonista in Ladri di biciclette, ma mai diventato attore professionista.

Tra le curiosità del film da ricordare, che le armi utilizzate sono di legno, in quanto il Ministero della Difesa non concesse l’uso di armi vere.

Se da un lato nonostante il grande impegno di tutti coloro che hanno partecipato alla realizzazione del film non abbia permesso ad una parte considerevole della critica di esprimere giudizi pienamente soddisfacenti sull’opera, Achtung! Banditi! rimane ancora oggi uno dei documenti più importanti dell’Italia che lotta per la libertà.

Carlo Lizzani durante la lavorazione del film

La particolarità per cui si distingue Lizzani è quella di avere fornito un credibile ed equilibrato film-documento sulla salvaguardia della memoria della Resistenza.                                                        Un  film dalla narrazione asciutta e concentrata nel seguire con l’occhio della macchina da presa il susseguirsi dei fatti. Achtung! Banditi! è considerato uno dei maggior film del cinema neorealista.

Trailer del film tratto dal canale Youtube

 

Fonti:

  • https://www.peopleforplanet.it/i-10-migliori-film-del-neorealismo/

  • Neorealismo – Il nuovo cinema del dopoguerra di Stefania Parigi

  • Dizionario del cinema italiano – IL NEOREALISMO di Stelvio Catena (Guerra Edizioni, 2007)

Riso amaro: le difficili condizioni di vita dei lavoratori della terra

RISO AMARO: IL FILM

Riso amaro, diretto da Giuseppe De Santis nel 1948, racconta le difficili condizioni di vita dei lavoratori della terra, concentrandosi sul lavoro femminile delle mondine, che andavano a lavorare stagionalmente nelle risaie del Piemonte.

Locandina del film

Grazie a questo film, De Santis, il quale è contemporaneamente soggettista e sceneggiatore, si impone alla ribalta nazionale e internazionale, quale esponente di spicco della cinematografia neorealista.

Nonostante nel film siano forti gli elementi classici del melodramma e del noir, Riso amaro è classificato come una delle maggiori opere neorealiste.

Diverse sono le novità presenti in questo capolavoro tra le quali emergono:

  • L’uso delle riprese interne ed esterne sui luoghi della vicenda;

  • Il racconto delle problematiche di un gruppo di operaie e malfattori, appartenenti alle classi sociali più povere ed emarginate della popolazione.

Formidabile il cast costituito da professionisti tra i quali spicca una giovanissima Silvana Mangano, indiscussa protagonista femminile nei panni della mondina Silvana, che si lascerà ammaliare dal truffatore e affascinante Walter Granata, interpretato da un grande Vittorio Gassman.

La Mangano, con questo ruolo contribuisce a lanciare il mito della maggiorata fisica degli anni Cinquanta.

Riso amaro: le difficili condizioni di vita dei lavoratori della terra
Silvana Mangano è “Silvana” una delle mondine in una scena del film

Antagonista Raf Vallone, il quale prima di essere scritturato era un cronista del giornale L’Unità e successivamente diventerà uno dei più importanti attori italiani. A completare il cast c’è Doris Dowling che interpreta il ruolo di Francesca, compagna di vita e di malefatte di Walter Granata che avrà la forza di cambiare vita.

Riso amaro è caratterizzato non soltanto per alcuni elementi tipici dell’epoca hollywoodiana tra i quali l’uso del chewing gum e del ballo boogie-woogie, ma anche per avere creato esso stesso nuovi divi e nuovi modelli da imporre alla società.

La Mangano e Gassman diventano le nuove star del cinema italiano e internazionale.

GIUSEPPE DE SANTIS: LO STILE NEOREALISTA

A soli 32 anni, Giuseppe De Santis con Riso amaro realizza un capolavoro che troverà un largo consenso da parte del pubblico, nonostante non abbia goduto di una critica favorevole.          Caratteristica dello stile di De Santis, è la narrazione romanzesca che segue l’evoluzione di “eroi” individualizzati in contesti familiari secondo la tradizione del romanzo ottocentesco.

Il regista Giuseppe De Santis

Questo aspetto che contraddistingue il regista, avrà modo di aggiornarsi grazie all’evoluzione del linguaggio cinematografico.

Il ritmo della narrazione è così rapido che vengono soppressi i tempi psicologi dei personaggi. In Riso amaro questo aspetto è evidente dall’utilizzo del treno, quale mezzo meccanico, che appare sin dall’inizio del film.

In un altro film neorealista, sempre diretto da De Santis, Caccia tragica del 1947, il treno è ridotto da valore a funzione e non viene più considerato come simbolo, ma come veicolo dell’ideologia politica.

De Santis, come Visconti, Rossellini e De Sica è uno neorealista, e la caratteristica dominante del suo cinema è nella costante attenzione verso il mondo degli umiliati e della classe degli sfruttati. Riso amaro, insieme al film Caccia tragica e Non c’è pace tra gli ulivi, appartiene alla trilogia del mondo contadino che è al centro dei film di De Santis. I film di De Santis sono stati concepiti per un pubblico popolare e risultano essere comprensibili e apprezzabili nel loro valore, soltanto dopo un attenta osservazione.

Il progetto di De Santis è quello di comunicare attraverso il mezzo cinematografico, la lotta di classe, l’economia capitalista, temi che erano diventati alquanto complessi per la tradizione della cultura contadina di quel periodo. Obiettivo del regista era quello di riuscire a raggiungere un significativo numero di persone a cui rendere note le condizioni di estrema povertà dei contadini e di conseguenza far riflettere sulla necessità di intervenire per apportare un cambiamento che potesse migliorare la società.

Fonti:

Umberto D: la disperazione di un pensionato

Umberto D. girato nel 1952, rappresenta l’apice della collaborazione tra Vittorio De Sica e Cesare Zavattini , il quale firma da solo sia il soggetto che la sceneggiatura.

Umberto D: la disperazione di un pensionato
Locandina del film

Dopo Sciuscià, Ladri di biciclette e Miracolo a Milano, considerati tutti capolavori neorealisti, De Sica ancora una volta mette in luce gli aspetti più drammatici della società del dopoguerra.         Una realtà in cui le storie di miseria, di sacrificio e fatica delle persone sono al centro della scena. De Sica e Zavattini, con la realizzazione di Umberto D., affronta dopo il tema della fanciullezza in Sciuscià, della disoccupazione in Ladri di biciclette e dei senza fissa dimora in Miracolo a Milano, la disperazione di un pensionato dell’uomo e della sua vecchiaia.          Il tema della povertà in Umberto D. è evidente sin dall’inizio del film dove un corteo di protesta organizzato da pensionati, fa sentire tutta la propria rabbia e disperazione, manifestata non solo a parole ma anche attraverso dei cartelli tenuti in mano in cui si esclamava “Aumentate le pensioni”! Ognuno di questi uomini si ritrova costretto a lottare per reclamare il diritto a vivere dignitosamente. Tra i pensionati del corteo, c’è Umberto Domenico Ferrari, (Carlo Battisti) ex impiegato al Ministero dei Lavori Pubblici, il quale dovrà fare i conti con una pensione di 18.000 lire al mese, che non gli permette di sostenere l’affitto della camera che occupa al costo di 15.000 lire. Come se non bastasse, il povero pensionato non è supportato dalla proprietaria della camera (Lina Gennari) la quale si mostra fredda e insensibile dinnanzi al dramma vissuto dall’uomo e non accetta ne un anticipo di pagamento (anticipo che Umberto riuscirà a racimolare dalla vendita del suo orologio per 3.000 lire e di alcuni libri per 5.000) ne un ritardo. A fianco di Umberto, rimane l’unico amico, il cane Flike e la giovane serva Maria (Maria Pia Casilio) alle dipendenze della proprietaria.

Umberto (Carlo Battisti) e il suo inseparabile Flike

Purtroppo Umberto non gode di ottima salute e tutto questo aggreverà la sua situazione, e di sua volontà si fa ricoverare in ospedale per qualche giorno. I giorni che seguono sono contraddistinti dal precipitare degli eventi che fanno sprofondare il povero Umberto in una situazione disperata.   Lo sfratto subito, la ricerca del cane Flike in un canile romano, l’indifferenza delle persone, lo inducono ad elemosinare. Ma Umberto è una persona troppo dignitosa e non riesce a compiere questo gesto. Per quest’uomo dal passato di impiegato rispettabile, è impensabile arrivare al punto di cercare la carità e coinvolgerà, Flike, attraverso l’uso del cappello nel tentativo di raccogliere denaro.

Sebbene Umberto D. oggi è considerato tra i migliori film del Neorealismo, la pellicola fu oggetto di ampie critiche da parte di esponenti del settore cinematografico e anche politico che non si rispecchiavano nella rappresentazione fatta dal regista di una Italia misera e negativa. Nonostante questo, Umberto D. è inserito nella categoria dei “100 film italiani da salvare” e De Sica considera questo film come il migliore lavoro realizzato, in cui la capacità di entrare nei sentimenti più profondi del personaggio, regala al cinema una delle figure più tristi e amorevoli.

Fonte:

  • Dizionario del cinema italiano – IL NEOREALISMO di Stelvio Catena (Guerra Edizioni, 2017)

Sciuscià: l’infanzia tra miseria e sogno

Con l’uscita nelle sale cinematografiche del capolavoro neorealista Sciuscià girato da Vittorio De Sica nel 1946, lo spettatore per la prima volta vede attraverso gli occhi dei bambini tutto il dramma loro vissuto durante i lunghi e terribili anni della  guerra.

 

Locandina del film

Per la prima volta, gli sceneggiatori, assegnano alla figura infantile un ruolo di primo piano, mai imposto prima nella storia del cinema italiano, capace di monopolizzare la trama del film. Vittorio De Sica, con Sciuscià, realizzato maggiormente in studio che in mezzo alle strade, attraverso la ricostruzione degli interni, riprende l’osservazione del mondo infantile dopo averla già iniziata ad esplorare nel film I bambini ci guardano del 1942, con la differenza che in Sciuscià questa osservazione è portata ad un livello elevato di drammaticità, contrapponendo l’infanzia tra miseria e sogno.

Con De Sica alla regia e Cesare Zavattini tra gli sceneggiatori, l’occhio della macchina da presa viene puntato verso due ragazzi, i quali per potere sopravvivere alle macerie della guerra si sono improvvisati lustrascarpe.

In un ambiente ostile, contraddistinto da miseria e indifferenza, Giuseppe (Rinaldo Smordoni) e Pasquale (Franco Interlenghi) quest’ultimo destinato ad una strepitosa carriera cinematografica, possono contare del loro solido legame di amicizia, che li rende quasi una roccia indistruttibile, per potere affrontare le durezze e cattiverie della società.

I due ragazzini attraverso l’utilizzo di un cavallo bianco (invenzione zavattiniana) è come se volessero fuggire dal quotidiano degrado vissuto.

Quel cavallo, è il mezzo  attraverso il quale potere quasi trasformare la realtà in un sogno fantastico. Purtroppo per Giuseppe e Pasquale, quella voglia di evasione verso un mondo migliore sarà infranta dagli eventi drammatici che segneranno la vita di entrambi.

Giuseppe (Rinaldo Smordoni) e Pasquale (Franco Interlenghi) in una scena del film

Costretti rapidamente ad imparare l’arte di arrangiarsi, hanno dovuto comportarsi seguendo codici che non gli appartenevano, adattandosi a fare i lavori più umili non soltanto quello del lustrascarpe, ma persino ad intraprendere traffici illegali.

Entrambi, loro malgrado vengono coinvolti in un furto in un appartamento, e da lì il tragitto verso il riformatorio, è breve e inevitabile.

Lo sguardo infantile scopre la durezza del mondo adulto, e inevitabilmente ne nascerà una forte opposizione che si traduce nel conflitto tra il bene e il male, tra vittima e carnefice.

Tutti gli adulti all’interno del sistema carcerario, nel quale era ancora forte l’impronta fascista, sono da condannare in quanto incapaci di provare sentimenti di comprensione e umanità, e anche se tra di loro l’assistente carcerario è l’unico capace di avvicinarsi ai ragazzi nel vano tentativo di difenderli, è troppo debole caratterialmente per potersi opporre al sistema.

Improvvisamente Giuseppe e Pasquale si ritrovano in un ambiente cinico, ipocrita ed egoista, incapace di comprendere le problematiche dei ragazzi, che si ritrovano prigionieri di un ambiente che non fa altro che schiacciare ogni loro desiderio, privarli degli affetti, condannare le loro vite.  Tutto ciò metterà a dura prova il profondo legame di amicizia tra i due adolescenti, i quali si troveranno a confrontare per la prima volta faccia a faccia.

La fiducia e la grande amicizia che prima erano alla base del loro rapporto, sembrano adesso svanite a causa di un ambiente che gli aveva messi l’uno contro l’altro.

Ormai è tardi per recuperare le fantasie e i giorni spensierati dell’infanzia e dell’adolescenza, le speranze di un cambiamento e l’illusione di una realtà diversa.

Il dramma incombe sulle loro vite che verranno segnate per sempre.

Sciuscià è il primo film italiano a vincere l’ambito premio Oscar come migliore film straniero, sottolineando come motivazione che “l’alta qualità del film, mostrata con eloquenza in un paese ferito dalla guerra, è la prova per il mondo che lo spirito creativo può trionfare sulle avversità”.

 

Fonti:

Miracolo a Milano: l’immaginario oltre la realtà

Se volessimo dare uno slogan al film “Miracolo a Milano”, lo potremmo definire come l’immaginario oltre la realtà. Nel 1951, Vittorio De Sica regista e Cesare Zavattini sceneggiatore, per la prima volta si allontanano da quei temi drammatici e realistici, come la disoccupazione, il disagio sociale e la povertà che erano la base di quei film definiti di denuncia sociale, come per esempio Sciuscià e Ladri di biciclette, con l’intento di raccontare attraverso la realizzazione di Miracolo a Milano, una storia surreale e utopica, quasi fiabesca.

Tratto dal romanzo “Totò il buono”, Miracolo a Milano concentra il suo raggio d’azione in una grande piazza, distante dal centro cittadino, in cui sono accampati decine di vagabondi, le cui vite in quello spazio triste e desolato sono il cuore del film.

Miracolo a Milano: l'immaginario oltre la realtà
Locandina del film

Tra tutti i personaggi, emerge la figura di un ragazzo, Totò (Francesco Golisano), la cui vita non è stata tra le più fortunate. Orfano di nascita e allevato da una vecchietta, Lolotta (Emma Gramatica), verrà affidato ad un orfanotrofio alla morte della donna. Il bambino cresce, e ormai adulto è libero di affacciarsi al mondo e vivere la sua vita.

Ma Totò è un anima troppo buona per riuscire ad affrontare una nuova società in cui sentimenti come bontà e gentilezza sono merce rara e si ritrova a vivere tra quei vagabondi che, diventeranno per lui la sua famiglia e per loro, Totò sarà il punto di riferimento.

I giorni si susseguono senza troppe sorprese, in quella piazza che è diventata per questi vagabondi la loro casa.

Non sono di peso nei confronti di quella società moderna che stava diventando priva di umanità. Tutto questo fino a quando non avviene un evento che travolgerà le esistenze di questi poveri uomini e donne, che non avrebbero mai immaginato di dovere lottare per difendere il territorio dalle mani avide di potere di quella società che aveva visto in quell’appezzamento una futura fonte di sviluppo urbano e di guadagno.

Quei vagabondi vivevano nell’indifferenza più totale e non rappresentavano una minaccia al benessere altrui, tutto questo però fino a quando non accade qualcosa di sorprendente, ovvero l’improvviso sgorgare di un getto di petrolio, che alimenta l’interesse da parte di un industriale a cacciare via i vagabondi.

Il povero Totò, soffre di questa situazione, vuole dare il suo aiuto alla risoluzione del conflitto che si era creato tra forza pubblica e vagabondi. E’ disperato, si sente solo, ma improvvisamente viene in suo soccorso, sotto forma di angelo, l’amata Lolotta che lo aveva allevato sin dalla più tenera età. Totò, attraverso l’aiuto della donna, che gli affida una colomba (miracolosa), avrà tutta quella forza necessaria per potere aiutare i suoi amici, che vedranno in Totò la figura quasi di un Dio capace di esaudire ogni loro desiderio. Totò nella sua impresa non è solo, al suo fianco c’è la ragazza di cui si è innamorato Edvige (Brunella Bovo). Un amore ricambiato, puro e genuino.

In Miracolo a Milano, l’immaginario oltre la realtà, Zavattini, fa una rappresentazione in cui mette in contrapposizione lo spazio reale ovvero quello in cui vivono i vagabondi, e lo spazio immaginario, al di là del mondo reale, che diventerà la loro nuova città e casa. Uno spazio immaginario oltre la realtà, umanamente e socialmente più vivibile.

Lolotta sotto forma di angelo che interviene nell’aiutare Totò in un momento drammatico

Si può affermare che con Miracolo a Milano ci si discosta per la prima volta dal Neorealismo, verso un realismo più surreale e fantastico.

Germania anno zero: la solitudine di un bambino

Germania anno zero è il terzo film della “trilogia della guerra” in cui, il regista Roberto Rossellini, nell’estate del 1947 va in trasferta e gira gli esterni in quel che rimane di una Berlino semidistrutta socialmente ed economicamente.      Il film lo si può identificare come la solitudine di un bambino, che come tanti altri suoi coetanei si ritrova a vivere in un contesto sociale e ambientale tra i più drammatici che la storia ricordi.

Germania anno zero: la solitudine di un bambino
Locandina del film

Berlino, se fino a qualche tempo prima ostentava la sua forza e supremazia su tutti e tutto, adesso è una città spettrale, lacerata e senza futuro.

I sopravvissuti al secondo conflitto mondiale, trascinano le loro vite con rassegnazione e stanchezza.

Tutto questo nel film è possibile coglierlo se si proietta lo sguardo verso quel che rimane degli edifici bombardati, dove al loro interno sono presenti persone le cui vite sono ormai andate in pezzi. Rossellini ideatore, produttore e regista del film, si concentra sulle ripercussioni della guerra subite dai più piccoli. In questo contesto emerge la figura di un bambino di dodici anni, esile, disorientato, vulnerabile, che prova a dimostrare di essere più grande della sua età, ma sulle cui spalle grava tutto il peso degli errori degli adulti. Quel bambino è Edmund, costretto a lavorare pur di aiutare la sua famiglia, dichiarando falsamente di avere quindici anni. Edmund non ha vissuto gli anni della sua infanzia, ma sfortunatamente non vivrà nemmeno quelli della sua imminente adolescenza. Vaga per le strade di Berlino, e le uniche cose che vede sono distruzione, dolore e morte. Tutto questo come si può ben immaginare non farebbe altro che alterare lo stato psichico di chiunque, a maggior modo se a vivere quelle esperienze è un bambino. Edmund non è soltanto costretto a vivere in un contesto urbano senza colori ed espressioni ma anche in un contesto familiare e sociale dove i messaggi trasmessi sono diametralmente opposti. Se da una parte, il padre naturale di Edmund ormai stanco e sofferente non fa altro che rimproverarsi di non avere reagito prima, opponendosi all’avanzata del Nazismo prevedendo l’inevitabile disastro e struggendosi dinnanzi all’evidente miseria che vive la sua famiglia, d’altra parte il bambino non è per niente aiutato dal suo maestro nazista, a cui chiede aiuto e supporto e, che, invece di ricevere validi consigli, gli insegna la legge del più forte e della non pietà.

Edmund insieme al padre in una scena del film

Allo stesso tempo, Edmund non trova conforto, ne aiuto, ma solo indifferenza, dai suoi stessi vicini di casa che non hanno la capacità di comprendere il malessere che sta vivendo, anche perché la guerra ha inaridito i loro sentimenti. Edmund non ha amici e prova a relazionarsi ma senza buoni risultati. Quei ragazzini che aveva conosciuto, si prendono beffe di lui e tutto questo non fa altro che rendere ancora più difficile la sua situazione. Edmund è sconvolto, non riesce più a distinguere il bene dal male. I giorni trascorrono, ma sono giorni senza sorrisi, senza quella spensieratezza che un bambino a quell’età dovrebbe avere e si troverà nel prendere decisioni estreme e irreparabili, che condizioneranno per sempre la sua vita.

Con Germania anno zero, la solitudine di un bambino, Rossellini dopo Paisà, prosegue il suo viaggio nell’analisi introspettiva dei personaggi, nella raffigurazione del loro pessimismo e drammatica inquietudine.

La guerra era finita da due anni, il Nazismo sconfitto, ma ancora i segni di morte e distruzione avevano lasciato profonde tracce e Rossellini, documenta attraverso le immagini della città di Berlino ormai decaduta e il racconto della storia di Edmund e della sua famiglia, le conseguenze di una guerra che ha dilaniato gli animi di adulti e bambini.

Paisà: l’umanitarismo di Rossellini

Paisà diretto da Roberto Rossellini nel 1946, è il secondo film, dopo Roma città aperta, appartenente a quella che è stata definita la “trilogia della guerra”.

Paisà: l'umanitarismo di Rossellini
Locandina del film

Il film ambientato nel periodo più drammatico per il nostro paese, tra l’estate del 1943 e l’inverno del 1944, si compone di sei episodi che documentano lo sbarco e avanzata delle truppe angloamericane dalle coste meridionali della Sicilia, verso Napoli, Roma, Firenze, Appennino emiliano e Delta del Po, con l’unico obiettivo di liberare l’Italia dall’occupazione nazifascista.

Se da una parte in ciascuna storia, il regista vuole fare emergere l’umanità dei personaggi, la diversità di culture, il riconoscimento del popolo nei confronti di quegli uomini a loro sconosciuti, ma che riconoscono di essere i loro salvatori; d’altra parte non si può fare a meno di notare il triste e drammatico epilogo vissuto.

I protagonisti sono tutti attori non professionisti e in ciascuno di loro si può leggere nei loro occhi la drammaticità e disperazione di quel periodo.

In tutti e sei gli episodi, lo spettatore ha evidente davanti ai suoi occhi che il film Paisà ha come elemento caratterizzante l’umanitarismo di Rossellini.

C’è Carmela, una povera ragazza siciliana, che si offre come guida per condurre gli alleati sbarcati  lungo il cammino al fine di evitare i campi minati, ma che sfortunatamente troverà la morte.

Carmela (Carmela Sazio) nel primo episodio “Sicilia”

C’è Pasqualino, un giovane scugnizzo napoletano, che casualmente avvicina un soldato americano ubriaco con l’intento di aiutarlo, e approfittando della situazione gli ruberà gli scarponi. Pasqualino vive in miseria, è orfano e, quando il soldato è determinato a riavere i suoi scarponi si rende conto del difficile contesto in cui vive il ragazzino, e decide di andare via.

Joe (Dots Johnson) e Pasquale (Alfonsino Pasca) nel secondo episodio “Napoli”

C’è Fred, un altro soldato americano, il quale viene adescato da Francesca una bella prostituta romana. Il soldato non riconosce in Francesca, la donna che aveva incontrato per la prima volta quando lui e gli altri alleati sbarcarono, ma lei si, lei si ricorda di quel soldato e prova a svelare la sua identità fissando un appuntamento con l’uomo. Francesca, purtroppo rimarrà delusa, il soldato non verrà mai all’appuntamento.

Francesca (Maria Michi) e Fred (Gar Moore) nel terzo episodio “Roma”

C’è Harriet, infermiera inglese che presta servizio vicino Firenze, innamorata di un partigiano, la quale è determinata ad entrare in città per riabbracciare l’amato e chiede aiuto ad un altro partigiano, ma anche in questo caso l’epilogo sarà amaro.Harriet riuscirà ad entrare in città, ma non avrà mai più la possibilità di rivedere il suo uomo.

Harriet (Harriet Medin), Massimo (Renzo Avanzo) e un partigiano

Nel quinto episodio, ambientato in un convento dell’Appennino emiliano, i frati francescani, accolgono con entusiasmo i religiosi americani, ma successivamente con la scoperta che due di loro sono uno protestante e l’altro ebraico, cambia tutto e la situazione diventa difficile. Decidono comunque di accoglierli ma pregano il Signore affinché si convertano.

L’incontro tra i frati e i cappellani americani

Infine, nell’ultimo episodio si assiste ad un drammatico e scontro diretto tra i partigiani che insieme alle forze alleate combattono il nemico. Da questo scontro emergerà ancora meglio la natura malvagia dei nemici tedeschi che non si fermano davanti a nulla. I partigiani avranno modo di conoscere da vicino le insane idee dei nemici attraverso un confronto verbale.

Partigiani e forze alleate unite insieme

Paisà, l’umanitarismo di Rossellini,  rappresenta uno dei migliori documenti neorealistici. Un punto di riferimento per comprendere lo stato d’animo e il vivere quotidiano di persone che si trovavano costrette ad affrontare una serie di avversità che hanno destabilizzato profondamente ogni equilibrio.

Il regista il si addentra in modo analitico nei personaggi con l’intento di renderli protagonisti attraverso il racconto delle loro storie, riuscendo a coinvolgere emotivamente lo spettatore.

Ossessione: antesignano del cinema neorealista

Ossessione, diretto da Luchino Visconti, è considerato l’antesignano del cinema neorealista da buona parte della critica.

Ossessione: antesignano del cinema neorealista
Locandina del film

Coloro che considerano Ossessione come antesignano del cinema neorealista, evidenziano alcuni aspetti tipici del nuovo genere cinematografico come ad esempio:

  • gli ambienti che risultano spesso cupi e bui

  • le inquadrature effettuate dalla regia assegnano al contesto ambientale (città e campagne) un ruolo fondamentale

  • i personaggi sono spesso poveri, disadattati ma nel film assumono un ruolo centrale.

D’altro canto, di opinione opposta ci sono coloro che non considerano Ossessione come antesignano del cinema neorealista, anzi lo inseriscono nel genere melodrammatico italiano in quanto sono evidenti alcuni aspetti quali:

  • gli attori sono tutti professionisti

  • gli interpreti parlano un italiano perfetto senza inflessioni dialettali

  • non vi è alla base un lavoro sui gesti e sul corpo, né si utilizzano pedinamenti con la macchina da presa nei confronti dei protagonisti

Ossessione, antesignano del cinema neorealista è stato girato tra la fine del 1942 e il 1943 in piena Seconda guerra mondiale,  è tratto dal racconto dell’autore americano James M. Cain, dal titolo Il postino suona sempre due volte, con la differenza che nell’opera prima viscontiana, le vicende sono trasposte nella provincia padana.

Al centro della vicenda, vi è la passione malata tra una donna infelicemente sposata, Giovanna, interpretata da Clara Calamai e il suo amante Gino, interpretato da Massimo Girotti; una passione che non farà altro che causare guai e sangue.

Clara Calamai (Giovanna Bragana) e Massimo Girotti (Gino Costa) in una scena del film

Sullo sfondo, l’Italia ancora sotto dittatura fascista dominata da ampie restrizioni culturali, sociali e di pensiero, che non vedeva di buon occhio le vicende morbose e libertine di una giovane coppia troppo audace per quei tempi.

La sua distribuzione nelle sale cinematografiche non fu delle migliori, tanto che si scatenarono proteste da parte di istituzioni in prevalenza nel Nord Italia, fino alla richiesta dell’immediato ritiro della pellicola da parte della Chiesa Cattolica.

Le proteste non si placano solamente con il ritiro della pellicola, addirittura si arrivò alla richiesta di distruzione di tutte le copie in commercio. Solamente grazie al tempismo del regista Visconti, che conservò per se un duplicato, oggi è ancora possibile conoscere e ammirare questo esempio del cinema italiano dal forte impatto emotivo, che ha contribuito al cambiamento della memoria collettiva del paese.

Ossessione, è collocato nella lista dei 100 film italiani da salvare; lista che considera tutti quei film che hanno contribuito al cambiamento della memoria collettiva del paese.

Fonte: 

  • Dizionario del cinema italiano – IL NEOREALISMO di Stelvio Catena (Guerra Edizioni, 2017)

Ladri di biciclette: il dramma della disoccupazione

Se Roma città aperta, è stato il film d’esordio del Neorealismo e film simbolo della Resistenza, Ladri di biciclette, diretto da Vittorio De Sica, è il film Neorealista di riferimento, che inaugura la seconda fase del movimento, incentrata sui temi sociali come il dramma della disoccupazione, l’argomento principale su cui ruotano i personaggi del film.

Ladri di biciclette: il dramma della disoccupazione
Locandina del film

Fin dalle prime scene, il tema della disoccupazione si evidenzia in tutta la sua drammaticità. L’offerta di lavoro è molto limitata e non tutti sono qualificati per determinate professioni.

Decine di uomini si accalcano in strada nell’attesa di essere chiamati.

La bicicletta è il mezzo di trasporto protagonista del film, mezzo ambito da molti che ripongono le speranze su di essa per ottenere il posto di lavoro come attacchino, ossia addetto alle affissioni.

Antonio, interpretato da Lamberto Maggiorani, è uno di questi uomini che, dopo due anni di attesa vuole ottenere il lavoro, ma le sue misere condizioni economiche non gli permettono l’acquisto del mezzo.

Ha bisogno della bicicletta, ha bisogno di quel mezzo, perché da quel mezzo dipende la sua stessa sopravvivenza e quella della sua famiglia.

Sarà la moglie a intervenire, privandosi del corredo, vendendolo, in modo tale da potere ricavare i soldi per sostenere l’acquisto della bicicletta.

In questo capolavoro del Neorealismo, è possibile cogliere tutti gli aspetti di quell’Italia sofferente, ridotta in miseria ma determinata a risollevarsi.

Nella Roma del secondo dopoguerra, la società è fortemente divisa e in Ladri di biciclette, il dramma della disoccupazione risulta evidente.

Da una parte è possibile cogliere segni di altruismo e umanità ma allo stesso tempo sono evidenti anche aspetti di egoismo e omertà.

Questi aspetti risaltano prima e dopo il drammatico evento che sarebbe capitato al povero Antonio; quell’evento che lo avrebbe privato della sua amata bicicletta e della possibilità di continuare a lavorare.

A ladro! A ladro! Queste sono le parole che pronuncia urlando Antonio quando si accorge che la sua bicicletta gli è stata rubata. Il povero Antonio è ignaro che quel giovane ragazzo che ha rubato la sua bicicletta non è il solo colpevole, ma anche chi presente alla scena, l’ha aiutato a compiere l’infame gesto.

Antonio (Lamberto Maggiorani) in una scena del film

Antonio, con il figlio Bruno interpretato da Enzo Staiola entra in una spirale di disperazione, perdendosi tra le vie di Roma, dove pochi saranno disposti ad aiutarlo, mentre la maggioranza è complice, indifferente anche quando Antonio si accorgerà di avere riconosciuto il ragazzo-ladro, e nessuno è disposto a sostenerlo.

La Roma di Ladri di biciclette, è ben diversa da quella che appare in Roma città aperta, una capitale in lotta contro l’invasore e pronta a combattere per liberarsi dall’oppressore, in cui impera miseria e anarchia. In Ladri di biciclette, si vede una Roma carica di speranze per il futuro, una Roma in cui si assiste all’inizio della ricostruzione ma al tempo stesso una città in cui vi sono ampie fasce sociali ai limiti della povertà.

Oggi è impossibile poter comprendere una situazione di profonda miseria come quella attraversata dall’Italia nel secondo dopoguerra. Nonostante ciò, vedendo il film, è netta la percezione del dramma vissuto da Antonio.

Antonio è l’uomo comune, che rappresenta tutti gli uomini di quel periodo.

Roma città aperta: la disperata e orgogliosa Resistenza romana

Roma città aperta, che racconta la disperata e orgogliosa Resistenza romana durante l’occupazione nazifascista, è il film simbolo di quel movimento culturale di breve durata, conosciuto come Neorealismo, destinato ad influenzare la cinematografia internazionale.

Roma città aperta diretto da Roberto Rossellini, uno dei massimi esponenti del cinema neorealista italiano, è una lente d’ingrandimento sui drammatici giorni vissuti durante l’occupazione nazista e della disperata e orgogliosa Resistenza romana.

La forza di questo film, come in tutti i film a carattere Neorealista, è data dall’intensità dei personaggi, dalle loro storie di vita, che in Roma città aperta vedono tutta la loro drammaticità.

Se una delle caratteristiche del Neorealismo, sono gli attori, ovvero attori non professionisti che scelti dal regista in base a delle particolari caratteristiche, si ritrovano ad essere i protagonisti principali, Roma città aperta segna un’eccezione alla regola.

In questo capolavoro senza tempo, gli attori non professionisti si ritrovano a confrontarsi con attori e attrici già consolidati nell’industria cinematografica italiana, quali in questo caso, Anna Magnani ed Aldo Fabrizi.

La maggior parte delle riprese sono tutte fatte su strada, caratteristica dominante di questo nuovo modo di fare cinema e la strada sarà rappresentata nella scena che domina il film in tutta la sua forza espressiva.

In Roma città aperta diversi sono i momenti in cui lo spettatore rimane emotivamente coinvolto e impietrito dinnanzi alla crudeltà della guerra e al dolore delle persone coinvolte.

Ancora oggi, mentre scrivo questo post e rivedo la scena che più delle altre mi provoca un senso di strazio e commozione, è quella della corsa inarrestabile di una disperata donna e moglie (Anna Magnani),  verso il marito caricato a forza in una camionetta e fatto prigioniero dai tedeschi.

Il suo urlo possente Francesco! Francesco! e la sua caduta rovinosa in strada, mitragliata dai nazisti e soccorsa invano dal figlio e dal prete (Aldo Fabrizi) è entrata di diritto nella storia del cinema.

Nina, rappresenta tutte quelle donne che vedono i loro mariti e familiari portati via dai nazisti che non si arrende al forzato distacco. I nazisti privi di umanità, crudeli dentro l’anima, troveranno una donna capace per un istante di violare quelle regole di sottomissione. Lei non si ferma davanti a nessuno pur di correre verso il marito nell’invano e disperato tentativo di poterlo stringere a se, e di sottrarlo da una inevitabile cattura e prigionia.

In una Roma dove il dolore è palpabile, emerge tutto il coraggio ed orgoglio di una città di non farsi piegare dal nemico.

Roma città aperta, rimane l’opera più rappresentativa del periodo più tragico dell’Italia. Gli uomini e le donne precipitati in breve tempo in miseria non possono fare altro che sperare nelle fine di quell’incubo chiamato guerra.